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SOCIAL MEDIA E LA PERCEZIONE DEL VALORE PROFESSIONALE

In questo ultimo intenso periodo di lavoro, mi sono capitate alcune esperienze professionali in presenza in cui ho avuto l’occasione di conoscere dal vivo colleghi e colleghe che fino a quel momento erano solo contatti di lavoro nelle piattaforme social, più propriamente su LinkedIn. È sempre bello quando un volto, un commento, un “like”, un “consiglia” prende forma, ha una voce, uno sguardo. In realtà è proprio come se ci si vedesse per la prima volta, perché effettivamente è così, anche se abbiamo già avuto modo di farci un’idea di quella persona attraverso il feed delle condivisioni.

Cosa scatta nella nostra mente quando questo accade? Come reagiamo al primo impatto? Ciò non riguarda solo la sfera lavorativa, ma anche l’ambito della nostra vita privata, a patto che usiamo i social anche soltanto per mantenerci in contatto con qualche lontano amico o parente.

Un paio di occasioni, come dicevo, mi hanno spinto a fare alcune riflessioni che, ci tengo a precisare, non hanno alcuna intenzione di fare scuola o giudicare i diversi approcci che ognuno di noi può avere nei confronti dei social media, sia per uso privato che professionale.

Chi mi conosce, dal vivo e appunto tramite social, sa che uso queste piattaforme (LinkedIn soprattutto) per farmi pubblicità, per ampliare la mia rete. Sarebbe sciocco pensare nel mondo di oggi che i social siano inutili, quando sappiamo che per ogni singola cosa come ordinare da mangiare, prenotare un volo aereo, acquistare un regalo di compleanno (per fare solo qualche esempio), consultiamo la rete, a prescindere che ci porti a fare scelte giuste o sbagliate.

Il cliente potenziale o oramai consolidato ha già un’idea di noi basata su quanto noi condividiamo, pubblichiamo nei social network. Non sto dicendo nulla di nuovo. Non sto salendo sulla cattedra dell’esperto di social media marketing, né tanto meno di un social media manager di professione.

Le riflessioni e le reazioni più o meno palesi dentro di noi possono essere diverse. La più estrema potrebbe essere pensare: “credevo fosse più bravo/a!”. Oppure: “sui social sembra chissà quanto è bravo/a, ma in realtà è molto più scarso/a!” Oppure: “vediamo se andrà a condividere anche questo servizio!”. “È esattamente come me lo/a immaginavo!” Potrei continuare l’elenco all’infinito, anche perché ognuno ha una propria percezione, un proprio punto di vista. Cambia solo la prospettiva. Non si tratta di stabilire quanto tutto questo sia più o meno giusto.

La percezione che in generale gli altri hanno di noi svolge un ruolo fondamentale nelle relazioni sociali. Se parliamo di lavoro, tale principio vale ancor di più. Come ci vedono gli altri, ma anche come noi vediamo gli altri può essere determinante nell’ottica di una scelta professionale di successo ed è proprio in questo punto che si dipana la complessa matassa dell’intelligenza relazionale, che è quasi un must per qualsiasi impresa e/o professionista che voglia riscuotere successo. Per essere più precisi, forse si dovrebbe parlare di intelligenza sociale che stabilisce relazioni di omologazione, inclusione, esclusione, ma anche di differenziazione.

Ci si potrebbe chiedere quanto tutto questo abbia a che fare con quella che per molti è una “semplice” condivisione di contenuti. Non è una mera condivisione di post, articoli, foto, ma molto di più. Ogni volta che condividiamo qualsiasi contenuto, decidiamo di mostrare, proprio come farebbe un attore a teatro, un aspetto di sé nei confronti di chi ci legge, di chi ci guarda. Più siamo autentici e personali e più andiamo a toccare le percezioni buone e positive che gli altri possono avere di noi. Di contro, più la modalità di condivisione risulta forzata, impersonale, autocelebrativa e senza una linea di narrazione coerente con quanto vogliamo comunicare, più le sensazioni suscitate possono essere contrastanti e talvolta disturbanti. I social, lo sappiamo, hanno il vantaggio di velocizzare e ottimizzare le possibilità di fare networking, ma al contempo sono croce e delizia dei nostri tempi, poiché se approcciati male possono suscitare sentimenti di invidia e portare a demotivazione e mancanza di autostima.

Non credo sia opportuno giudicare qualcuno solo per quello che posta, pubblica, condivide; come non è neanche giusto idealizzare troppo quello che leggiamo sui social, nel bene e nel male. I social media sono come dei boomerang che restituiscono (talvolta con gli interessi) quello che abbiamo lanciato. Se uno strumento è ben accordato e la musica è gradevole, la cassa di risonanza riecheggerà la stessa melodia senza distorcere il suono. Perché in fin dei conti, se chi ha usufruito dei nostri servizi, ci ha prima conosciuto in rete e poi torna da noi, vuol dire che quella voce era autentica. Vuol dire che dietro quell’immagine c’è della sostanza.

In fin dei conti, la nostra migliore strategia social – e non è la stessa per tutte e per tutti – è quella che rispecchia la nostra vera personalità. E di questo i colleghi, le colleghe, i clienti, i collaboratori, le collaboratrici se ne accorgono subito. Non c’è bisogno di accumulare visualizzazioni e/o like per fare in modo che la nostra strategia social porti al risultato sperato e cioè fare business e ampliare la nostra rete di collaborazioni che in questi tempi sempre più ingrati sembra non bastare mai.

Dovremmo ricordarci che dietro un profilo in qualsiasi piattaforma social c’è una persona, un/a professionista che sta cercando di instaurare una relazione che, seppur virtuale, prima o poi potrebbe diventare reale.

Non credo sia giusto standardizzare il nostro modo di comunicare in rete. Non esistono regole universali. Non per forza ciò che fa e che pensa sia giusto fare la maggior parte degli utenti della rete è la soluzione ideale valida per tutti.

Come sempre la verità sta nel mezzo e non è sempre facile mediare nel mondo virtuale che sta diventando sempre più divisivo e polarizzante.

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