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La collega Giselle Chaumien mi ha dato l’occasione di partecipare a una sua intervista, non soltanto per far capire quello che faccio, ma anche per esprimere un mio punto di vista sul nostro lavoro di interpreti e traduttori. Qui trovate la versione originale tedesca.
Sergio, hai iniziato presto a interessarti alle lingue straniere e in particolare alla lingua tedesca. Ci sapresti spiegare cosa ti affascina delle lingue e quindi del tedesco?
Veramente la prima volta che sono venuto a contatto con le lingue straniere avevo 14 anni ed ero iscritto al liceo linguistico dove ho iniziato a studiare il francese, l’inglese e il tedesco. Tuttavia, avevo già studiato il francese per tre anni alle scuole medie. La mia insegnante di francese, allora, riteneva che non fossi molto predisposto per le lingue straniere, ma in qualche modo mi sentivo sempre attratto dagli stranieri. Da piccolo i miei giochi di ruolo avevano sempre per protagonisti dei viaggiatori che non riuscivano mai a capirsi tra di loro. In inglese iniziai a prendere subito ottimi voti e questo grazie ai testi delle canzoni degli U2, Queen, Simply Red, ecc. che conoscevo praticamente a memoria. Al terzo anno iniziai a studiare tedesco. È stato semplicemente amore a prima vista. Non appena ho sentito parlare la mia insegnante di tedesco, mi sono innamorato di questa lingua. L’inglese bene o male piace a tutti. Con il tedesco è diverso; o lo ami o lo odi. Non ci sono mezze misure. Ho subito pensato: “voglio assolutamente lavorare con questa lingua.” Cosa mi affascina di più di questa lingua? Per favore, non ridere. La sua musicalità. Strada facendo, ovviamente, mi sono reso subito conto quanto potesse essere difficile questa lingua per un italiano. La sintassi per me allora era un vero e proprio mistero, al punto tale che trovare la posizione giusta di un verbo in una frase tedesca talvolta era una sfida. Per non parlare poi delle lunghissime parole tedesche, che talvolta potevano contenere a loro volta fino a quattro o addirittura più termini. Una cosa era chiara; gli ostacoli di fronte a me erano veramente tanti prima di poter padroneggiare il tedesco veramente bene sia a livello parlato che scritto. Devo essere sincero, l’amore e l’entusiasmo per questa lingua mi hanno aiutato molto a superare i miei duri anni universitari e ad immedesimarmi nella mentalità dei tedeschi e degli austriaci durante i miei frequenti soggiorni di studio e lavoro all’estero. Ai miei amici, colleghi, conoscenti tedeschi dico sempre che sono un po’ “crucco dentro”.
Fai il libero professionista oramai da quasi 20 anni. Cosa ti ha spinto a fare questa scelta? Lo consiglieresti ai più giovani?
Prima di avviarmi alla libera professione, ho lavorato per un anno come corrispondente in lingue estere in un’azienda internazionale della mia regione. Non durò per molto, perché sentivo che le mie competenze linguistiche erano ridotte all’osso e allora avevo solo una laurea in lingua e letteratura tedesca e inglese. Il mio sogno è sempre stato quello di lavorare come interprete e traduttore. Ma avevo bisogno di una base tecnica e allora non ho fatto altro che rimboccarmi le maniche e rimettermi in gioco. Mi sono quindi iscritto a un istituto universitario per interpreti e traduttori della mia regione e contemporaneamente ho iniziato a tradurre per alcuni clienti privati. Non era abbastanza. Dopo il diploma universitario di interprete era mia intenzione fare esperienze pratiche e feci domanda per uno stage presso un’agenzia di traduzioni nella Germania del nord. Era, per così dire, la ciliegina sulla torta e ho imparato veramente tanto da quell’esperienza, perché finalmente avevo capito cosa stava dietro a una traduzione. Inoltre ho anche avuto la possibilità di svolgere incarichi di interpretariato particolarmente difficili presso alcuni tribunali tedeschi. Per me è stata una vera e propria palestra. Una volta tornato in Italia la libera professione sarebbe stato il passo successivo e devo ammettere che ero particolarmente motivato. Ad essere sincero, i primi clienti non si sono fatti attendere molto. La mia formazione e la mia esperienza di lavoro in Germania erano il mio migliore biglietto da visita. Sì, consiglierei la libera professione ai più giovani, ma con tanta pazienza e senza troppa fretta. Negli ultimi 20 anni il mercato si è sviluppato molto, perché ha bisogno di professionisti competenti e specializzati. Le basi di partenza erano importanti allora ed oggi lo sono ancor di più. C’è anche da dire che non tutti sono tagliati per la libera professione, perché prima bisogna capire cosa significa effettivamente lavorare come freelance. Onestamente, inserirei l’avviamento alla libera professione come materia obbligatoria presso tutte le facoltà universitarie e le scuole per interpreti e traduttori.
Nutro una profonda ammirazione per voi interpreti. Puoi dirci qualcosa a riguardo? Quali sono le tipiche situazioni di lavoro? Qual è stata finora la tua sfida più grande?
Lavoro sia come interprete che come traduttore. L’interpretariato è ovviamente la mia vera passione. La combinazione linguistica dal tedesco all’italiano e viceversa è stata il mio trampolino di lancio, perché in Italia c’erano e tuttora ci sono meno professionisti competenti. Lavoro molto anche con l’inglese, soprattutto come interprete, ma quando lavoro con il tedesco le sensazioni sono completamente diverse, perché mi sento totalmente in sintonia con l’oratore e la responsabilità è ancora più grande. Il servizio è più difficile e la capacità di concentrazione deve rimanere sempre alta. La frase tedesca è completamente diversa da quella italiana e devo aspettare più a lungo prima di captare tutte le informazioni necessarie per rendere in italiano una frase di senso compiuto. La memoria è lo strumento più importante. Le situazioni tipiche in cui lavoro come interprete sono, ad esempio, in occasione di conferenze ed eventi di carattere internazionale, dove chiaramente opero da una cabina come interprete simultaneista; ma anche in occasione di tavole rotonde o riunioni più ristrette, dove lavoro come interprete consecutivista. Capita anche molto spesso di lavorare durante seminari e corsi di formazione altamente tecnici direttamente su macchinari e apparecchiature. Qui a volte il lavoro, in questi casi, può essere molto più difficile che in una classica situazione in cabina. La mia sfida più grande? Ce ne sono state tante e dopo quasi 20 anni sul campo molte sono andate a finire nel dimenticatoio. Due, tuttavia, mi sono rimaste impresse. Non erano le più difficili, ma tra le prime che ho fatto e devo ammettere che non avevo ancora molta esperienza. Il mio primo incarico è stato in occasione di un importante incontro per la compravendita tra due grandi multinazionali. Si parlava di milioni di euro e sentivo molto forte il peso della responsabilità. La seconda, invece, è stata la mia prima cabina. I primi trenta minuti erano interminabili, poi mi sono rilassato un po’ di più.
Gli ultimi due articoli del tuo blog riguardano i consigli che un interprete può dare a un traduttore e viceversa. Potresti approfondire un po’ la questione per noi, che purtroppo non parliamo italiano?
Sì, l’interpretariato e la traduzione sono due facce della stessa medaglia. In quasi 20 anni di attività da freelance ho combattuto su entrambi i fronti, per così dire. Per questo ho scritto nel mio blog una sorta di decalogo, ovvero cinque consigli che un interprete può dare a un traduttore e viceversa. A mio parere, un interprete può trasmettere improvvisazione, interazione, pragmatismo, decoro personale e flessibilità mentale. Sia il traduttore che l’interprete sono figure a cui si richiede un alto grado di flessibilità mentale. L’interprete è delle due professioni quella in cui si sviluppa questa capacità in modo esponenziale, sia per la flessibilità, soprattutto fisica, sia per la varietà degli argomenti che deve affrontare, a volte anche durante lo stesso incarico. La flessibilità mentale è il dono più grande che, inconsapevolmente, la mia identità di interprete trasmette alla mia identità di traduttore. Nel rapporto tra traduttori e interpreti, invece, i primi possono trasmettere ai secondi capacità come lo studio, l’analisi, la precisione, la specializzazione e la pazienza. Il dono più importante che un traduttore può fare a un interprete è la pazienza. L’interprete è molto più impaziente da questo punto di vista. La mancanza di tempo e la chiamata “last minute”, talvolta “last second”, lo fa essere molto reattivo ai tempi di svolgimento del servizio. Ciò non significa che un interprete sia superficiale e frettoloso, non fraintendermi, ma arriva più velocemente alla fine e magari si spazientisce più facilmente quando invece ci sono momenti di staticità, anche tra un lavoro e l’altro. La pazienza è quell’arma fondamentale per vivere meglio i momenti di calo di lavoro e non solo.
Come traduttore hai una vasta gamma di settori di competenza. Quanto è importante, secondo te, la specializzazione?
La specializzazione è fondamentale. Il mio lavoro di interprete tuttavia mi porta anche ad osare. Devo anche dire che i miei clienti abituali mi conoscono molto bene. Di solito mi danno quello che so fare meglio. Non mi piace assolutamente tradurre brevetti. Lo sanno, anche se traduco molto nel settore tecnico. Alcuni campi ne richiamano altri, per così dire. Ad esempio: la stampa 3D, oggi come oggi, viene implementata quasi ovunque. La stampa 3D e la medicina oramai vanno di pari passo. Sarebbe impensabile operare in questo settore senza addentrarsi nel settore medico. L’interprete che è in me dice alla mia identità di traduttore che la specializzazione è fondamentale, ma la flessibilità è ancor più importante.
Grazie mille, Sergio, per questa interessante intervista.